Analisi della poesia "LA GINESTRA" di Giacomo Leopardi



Composta nel 1836 la ginestra è l’espressione della poetica che caratterizzò gli ultimi anni di Leopardi, non più idilliaca  ma eroica in cui il poeta difende le proprie posizioni e il proprio pensiero più caparbiamente e coraggiosamente. La poesia è stata ispirata dalla vivida impressione lasciata nell’animo del poeta dalla visione del fiore della ginestra sulle pendici del Vesuvio 

 
“ Qui  sull’arida pendice del terribile e distruttore monte Vesuvio che non è abbellito da nessun altro albero o fiore distendi i tuoi rami intorno profumata  ginestra, che ami i luoghi aridi .Ti vidi altre  volte abbellire con i tuoi steli luoghi desolati che circondano la città  che un tempo fu padrona del mondo e sembra che con il triste e silenzioso aspetto rendano la testimonianza e il ricordo dell’impero scomparso. Ora ti rivedo in questo terreno, amante dei luoghi tristi e abbandonati dal mondo e sempre compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri che li rendono sterili e  ricoperti di lava induritasi che produce rumore sotto i passi del viaggiatore; dove il serpente si nasconde e si contorce al sole e dove il coniglio torna all’abituale tana sotterranea; furono villaggi sereni e coltivazioni, e biondeggiarono di grano e risuonarono del muggito del bestiame;furono giardini e palazzi gradite dimore per il riposo degli uomini potenti; e furono città famose che il monte indomabile dalla bocca di fuoco eruttando distrusse insieme ai loro abitanti con i suoi fiumi di lava. Ora tutto lo spazio circostante è avvolto dalla rovina, dove tu ti trovi o fiore gentile e quasi provando compassione per le disgrazie altrui mandi verso il cielo un dolcissimo odore che conforta il deserto. Venga in questi luoghi colui che è solito esaltare e lodare la condizione umana e noti quanto la natura amorevole abbia a cuore il genere umano. E qui potrà anche stimare in modo piuttosto preciso la forza del genere umano, che la madre crudele quando l’uomo meno se lo aspetta può annullare in parte e in un sol momento con un leggero terremoto o completamente e immediatamente con movimenti  poco più intensi. In questi luoghi sono rappresentata la fiducia in un progresso grandioso e splendido dell’umanità.”

In questa prima parte della poesia Leopardi ci descrive un paesaggio arido spoglio, privo di vita ad eccezione di quella rappresentata dalla pianta della ginestra che ama luoghi solitari abbandonati da tutto e il suo profumo è l’unica cosa positiva che si può trovare nei campi devastati dall’eruzione del Vesuvio che ha cancellato la vita dai quei luoghi e ha lasciato al suo posto squallore e desolazione. La ginestra sembra al poeta quasi provar pena per le sventure degli uomini che inevitabilmente non possono che soccombere davanti alla potenza della natura rappresentata ora dal vulcano, e gia in queste parole possiamo ritrovare un tema chiave della poetica di leopardi: la concezione della natura come matrigna malvagia. Il poeta ricorda di aver già visto questa piante nelle campagne abbandonate che circondano Roma, indicata qui con una perifrasi. In questi versi troviamo una sferzante opposizione tra presente e  passato realizzata tramite la descrizione di come il luogo si presenta dopo l’eruzione del Vesuvio cioè spoglio deserto e sterile e di come avrebbe potuto apparire prima che la forza devastante della natura si abbattesse su di esso cioè ricco di vegetazione e di ville patrizie. Questa opposizione è rimarcata dalla reiterazione de verbo “Fur” che si contrappone a “Or” del verso 32. Negli ultimi versi di questa prima strofe Leopardi invita gli uomini, gli intellettuali che sostengono teorie antropocentriche e che lodano le facoltà dell’uomo e professano una salda fiducia nelle possibilità umane a visitare quei luoghi devastati dalla lava per rendersi veramente conto dell’effettiva forza del genere umano che può venire annientata in qualsiasi momento dalla natura. Il poeta è quindi consapevole dei limiti dell’uomo e critica aspramente l’ottimismo di coloro che confidano ciecamente nel progresso tecnico e scientifico. 

“Qui guardati e specchiati secolo superbo e sciocco che hai lasciato la strada tracciata prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e tornando indietro ti vanti del procedere a ritroso e lo chiami progresso. E tutti gli intellettuali di cui la sorte malvagia ti ha reso padre lodano il tuo atteggiamento puerile benché dentro se stessi ti rendano oggetto di scherno. Io non morirò con questa vergogna; ma piuttosto il disprezzo che nutro nel mio animo nei tuoi confronti  lo avrò manifestato il più apertamente possibile: benché io sappia che l’oblio ricopre chi fu troppo sgradito alla propria epoca. Di questo male che condivido con te finora non me ne curo per niente. Sogni la libertà e allo stesso tempo vuoi di nuovo rendere schiavo il pensiero solamente grazie al quale ci siamo risollevati in parte dalle barbarie e soltanto grazie al quale si cresce nella civiltà che da sola guida i destini dei popoli verso il progresso. Quindi ti è sgradita la realtà dell’amara sorte e del basso posto assegnatoci dalla natura. Per questo hai volto vigliaccamente le spalle alla ragione che lo rese evidente: e mentre fuggi da esso chiami vile colui che lo segue e magnanimo solamente colui che illudendo se stesso o gli altri essendo astuto o folle esalta la condizione umana fin sopra le stelle.”

In questa seconda strofe Leopardi auspica che il secolo in cui vive prenda coscienza della proprie contraddizioni che lo hanno portato a rinnegare i principi della ragione la quale ha suggerito all’uomo la sua piccolezza e finitudine ma che gli intellettuali del tempo hanno deciso di rinnegare forse perché delusi e sviliti dalla bassa considerazione che l’universo ha avuto per noi. In questi versi il poeta affronta un altro tema molto importante per gli uomini di cultura dell’epoca cioè la paura di essere dimenticati, di cadere nell’oblio dopo la morte e questo ha spinto molti per ottenere fama e riconoscimenti ad assecondare i gusti della borghesia il nuovo pubblico di lettori e le mode passeggere sacrificando  e svilendo così la loro arte. Leopardi invece rimane fedele alla sua poetica e alla sua visione nel mondo preferendo rimanere integro piuttosto che svendersi alle regole del mercato editoriale che favoriva la diffusione di opere di scarso valore ma commercialmente interessanti relegando così ai margini produzioni pregevoli e meritevoli che di conseguenza non potranno passare alla storia. In questi versi quindi possiamo notare l’aspra polemica di leopardi nei confronti della società in cui vive incurante della meritocrazia.

“ Un uomo povero o malato per quanto sia dotato di un’anima generosa e nobile non si definisce né si ritiene ricco e nemmeno forte e non si rende ridicolo ostentando fra la gente uno splendido stile di vita o una perfetta salute; ma mostra senza vergogna la sua debolezza e povertà ,e si definisce tale parlando apertamente e valuta la sua condizione per quello che è. Non credo che sia un essere magnanimo bensì stolto quello che nato per morire, cresciuto nelle sofferenze afferma che è stato creato per essere felice e riempie le carte di disgustoso orgoglio promettendo grandiosi destini e straordinarie felicità sulla terra che nemmeno il cielo conosce non solo questo mondo a popoli che un maremoto un’epidemia, un terremoto possono distruggere a tal punto che a stento ne sopravvive il ricordo. L’animo nobile è quello che ha il coraggio di alzare gli occhi mortali verso il destino comune e che con parole sincere senza omettere  nulla della verità rivela il male e la condizione insignificante e debole che  la sorte ci ha assegnato. Quello che si mostra grande e forte nella sofferenza e non incolpando gli uomini  delle sue miserie non aggiunge l’odio e la rabbia nei confronti dei propri fratelli cose più gravi di ogni altro male, ma ritiene responsabile colei che realmente lo è che è madre degli uomini  avendoli generati ma matrigna per l’affetto nei loro confronti. Considera la natura come nemica ritenendo giustamente che la società umana si sia riunita e organizzata in origine contro la natura  e ritiene  che gli uomini si siano alleati tra di loro e tutti abbraccia con amore sincero offrendo aiuto valido e pronto ed aspettandone in cambio nei pericoli che alternativamente si presentano e nelle sofferenze della lotta contro la natura comune a tutti gli uomini. E ritiene che sia sciocco armare la propria mano per contrastare un altro uomo e  preparare insidie e ostacoli al proprio vicino così come sarebbe sciocco in un campo circondato dai nemici proprio durante l’assalto più intenso dimenticando i nemici e le aspre contese iniziare a mettere in fuga e uccidere con la spada i propri compagni.
Questi pensieri quando saranno come furono noti al popolo e quando sarà ristabilito dal vero sapere il giusto terrore che per primo spinse gli uomini a unirsi in una società contro la malvagia natura , l’onestà e la rettitudine dei rapporti civili e la giustizia e la pietà avranno altre fondamenta al posto delle favole piene di presunzione basandosi sulle quali l’onestà del popolo si reggerebbe in piedi così come farebbe qualsiasi cosa fondata sull’errore.”

Questa terza strofe Leopardi  definisce le caratteristiche dell’uomo nobile e dello stolto sostenendo come sia da considerarsi degno di ammirazione colui che mostra apertamente i suoi difetti e le sue debolezze con fierezza e orgoglio invece che con vergogna e che giudica in modo esatto la propria condizione di uomo valutandone accuratamente le possibilità e i limiti. Definisce,invece, sciocco colui che crede di essere nato per essere felice e per provare piacere non rendendosi conto che in realtà  il suo unico destino è quello di morire e che la sua vita è in realtà un cammino di dolori e sofferenze inserito all’interno di un ciclo universale di produzione e distruzione di materia il cui unico scopo è perpetuarsi. Inoltre sciocco è colui che crede ottimisticamente in un progresso splendido che porterà l’uomo alla più completa serenità e soddisfazione ignorando stupidamente che gli uomini, i loro destini, le loro opere possono essere cancellate in un attimo con una semplicità disarmante dalla potenza della natura. Invece l’uomo intelligente è consapevole della sua caducità e fragilità e che le proprie sventure sono causate proprio dalla natura stessa che è per il poeta al contempo madre in quanto ha creato gli uomini e matrigna poiché resta indifferente davanti al loro dolore e dramma che condanna l’uomo a non essere mai felice ma caratterizzato sempre da un insanabile contrasto tra l’ infinito desiderio di trascendere i propri  limiti e le proprie conoscenze e l’impossibilità di raggiungere quel senso di completo soddisfacimento. Al verso 125 è importante notare il chiasmo “ madre è di parto e di voler matrigna” che mette in risalto i due sostantivi posti in posizione nobile cioè all’inizio e alla fine del verso e che indicano l’ambivalenza del rapporto esistente tra natura e uomo. In questa strofe troviamo anche numerosi scontri di consonanti nei vocaboli usati che hanno il fine di comunicare l’ardore del poeta che difende le sue posizioni e polemizza contro la società del suo tempo e contro gli intellettuali che ne fanno parte.

“Spesso di notte mi siedo su queste pendici desolate che la lava pietrificata riveste di un colore bruno e sembra che ondeggi e sopra questo territorio devastato vedo dall’alto in un cielo limpidissimo brillare le stelle cui in lontananza fa da specchio il mare e vedo intorno il mondo intero brillare nei vuoti spazi sereni. Dopo che fisso gli occhi su quelli luci, che a essi sembrano un punto, e invece sono immense tanto che la terra e il mare sono in realtà un punto rispetto a loro alle quali stelle è del tutto sconosciuto non soltanto l’uomo, ma anche questo pianeta sul quale l’uomo è nulla; e quando guardo quei grovigli di stelle ancor più infinitamente lontani che a noi appaiono come una nebbia a cui non solo l’uomo non solo la terra ma tutte insieme le nostre stelle infinite per numero e per grandezza insieme con il sole dorato o sono sconosciute o appaiono così come essi appaiono viste dalla terra, un punto di luce nebulosa; allora al mio pensiero che cosa sembra la specie umana? E ricordando il tuo stato sulla terra di cui è testimonianza il suolo che io calpesto; e poi d’altra parte che tu credi di essere stata creata come padrona e fine dell’universo, e quante volte ti fece piacere raccontare favole in questo buio granello di sabbia che prende il nome di terra , per le quali i creatori dell’universo scesero per te e spesso conversarono piacevolmente con i tuoi rappresentanti e che persino la presente età che sembra superare tutte  in conoscenza e pratiche civili insulta le persone sagge rinnovando le antiche speranze derise; quale sentimento allora o quale pensiero prova alla fine il mio cuore nei  tuoi confronti o infelice specie umana? Non so se prevalga il riso o la pietà.”

In questa quarta strofe Leopardi riflette sulla piccolezza dell’uomo che non è nulla di fronte all’infinita grandezza dell’universo eppure spesso nella storia si è vantato di affermare che gli dei sono scesi in terra per lui e hanno parlato con lui dando segno di una grande superbia e presunzione. Gli uomini infatti in passato si sono sentiti al centro dell’universo credendo che tutto fosse stato fatto per loro, in funzione di loro. Questa per Leopardi è solo un’illusione creata dalle teorie antropocentriche e dalle religioni nel corso dei secoli. Alla fine il poeta conclude questa riflessione non sapendo se provare pena per la miseria dell’uomo e incapace di accettare la propria condizione infelice o deriderlo per la sua stoltezza. In questi versi sono frequenti le allitterazioni in “a” che rendono l’idea di infinità e di illimitatezza dell’universo. L’infinito è un tema importantissimo della poetica di Leopardi il quale sostiene che è poetico tutto ciò che è vago, nebuloso, senza contorni precisi, sfumato e quindi egli cerca di riprodurre attraverso il linguaggio la sensazione di infinito.

“Come da un albero durante l’autunno cade un piccolo frutto mandato a terra solo perché giunto a maturazione schiaccia, distrugge e ricopre i cari rifugi scavati nel morbido terreno con grande sforzo da parte delle formiche e le ricchezze che le laboriose formiche avevano previdentemente raccolto con grande fatica durante l’estate in un punto; così le tenebre e una valanga di ceneri, di rocce e di pietre piombando dall’alto scagliata verso il cielo dal cratere tonante del vulcano oppure una immensa piena infusa di lava bollente e di massi liquefatti e di metalli e di sabbia infuocata scendendo furiosa sopra la vegetazione del pendio  della montagna sconvolse, distrusse e ricoprì in pochi attimi le città che il mare bagnava là sulla costa lontana: di conseguenza sulle città seppellite  pascola la capra e dall’altra parte sorgono nuove città sopra quelle sepolte e l’alto monte quasi calpesta alla base le mura cadute. La natura non ha più riguardo verso la stirpe dell’uomo che verso la formica e se avviene che le stragi sono meno frequenti tra gli uomini che tra le formiche, ciò dipende solo dal fatto che la stirpe degli uomini è meno feconda.”

In questa strofe il poeta riafferma come la natura non si curi dell’uomo più di quanto non faccia con ogni altra specie vivente esprimendo così il proprio giudizio polemico nei confronti di ogni dottrina o filosofia che pone ostinatamente l’uomo al centro dell’universo. Per Leopardi questa concezione antropocentrica del mondo è del tutto errata ed esprime il cieco egocentrismo della specie umana che ritiene se stessa il culmine della perfezione nel creato, l’esser che più si avvicina a dio e per questo ha creduto a vanamente di poter controllare e sfruttare a proprio beneficio le forze della natura ma questa non è altro che un illusione come il poeta vuole dimostrare riportando e descrivendo il disastro provocato dall’eruzione del Vesuvio il quale è poeticamente riportato attraverso numerose allitterazioni consonantiche soprattutto “nt” e “nd” e anche vari scontri di consonanti che aiutano ad evocare fonicamente il dramma di quei momenti e la potenza devastante della natura davanti alla quale gli uomini si devono inginocchiare,infatti le città da loro costruite sono state in pochi attimi cancellate, demolite e coperte da una coltre di lava e cenere, fatto che può essere letto simbolicamente come la riaffermazione della supremazia delle forze naturali rispetto a quelle umane. 

“ Sono passati ben 1800 anni da quando scomparvero sepolti dalla forza della lava i villaggi popolati , e il giovane contadino che si occupa dei vigneti che a stento la terra arida e bruciata fa crescere in questi campi, ancor solleva lo sguardo sospettoso verso il monte fatale,che non è diventato per niente più mite e che ancora minaccia la sua distruzione dei suoi figli e dei suoi poveri averi. E  spesso l’infelice passando tutta la notte insonne sul tetto della sua casa rustica all’aria aperta e sollevandosi più volte esplora il percorso della temuta lava che dall’ inesauribile cratere si riversa sul versante sabbioso la quale si rispecchia nel mare di Capri, nel golfo di Napoli e nel porto di Mergellina. E se la vede avvicinarsi o se nel profondo del pozzo sente l’acqua gorgogliare, sveglia i figli, sveglia la moglie velocemente e fuggono via con quanto delle loro cose riescono ad afferrare , vede da lontano la sua casa abituale e il piccolo campo,che per lui fu unica difesa dalla fame, preda della rovente lava che scende crepitando e inesorabile si distende sopra di essi per ricoprirli per sempre. Torna alla luce dopo l’antico oblio l’estinta Pompei come uno scheletro sepolto che l’avarizia o la pietà della terra scoprono, e dal cavità (scavo) deserta il visitatore in piedi tra le file delle colonne spezzate, contempla da lontano la doppia cima del vulcano (il Vesuvio e il monte Somma) e la cresta fumante che ancora minaccia le rovine sparse della città.
E nell’orrore della notte segreta per i vuoti teatri, per i tempi deformati, e per le case danneggiate dove il pipistrello nasconde i suoi cuccioli, come una luce sinistra che si aggira tetra per i  vuoti palazzi , corre il bagliore della lava portatrice di morte che da lontano attraverso le tenebre rosseggia e colora tutti i luoghi intorno. Così, la natura resta sempre viva e vigorosa inconsapevole dell’uomo e delle epoche che egli chiama antiche e dell’avvicendarsi delle generazioni, anzi avanza attraverso un così lungo cammino che sembra rimanere immobile. Nel frattempo cadono i regni, passano i popoli e le lingue: ella non se ne accorge: e l’uomo vanta di essere eterno.”




“ E tu flessibile ginestra che adorni con cespugli profumati questi campi spogli e disadorni, anche tu presto soccomberai alla crudele potenza del fuoco proveniente dall’entroterra che ripercorrendo il luogo già conosciuto stenderà il suo mantello avido di morte sopra le tue morbide foglie. E piegherai il tuo capo innocente senza resistere sotto il peso mortale: ma mai piegato finora inutilmente e vigliaccamente supplicando davanti al futuro oppressore; ma nemmeno sollevato con folle orgoglio verso le stelle, né sopra la terra deserta dove tu sei nata non per tua volontà, ma per caso fortuito; ma più saggia dell’uomo ma tanto meno debole in quanto non hai mai creduto che le tue fragili stirpi fossero state rese immorali da te stessa o dal destino.”

La ginestra è metafora dell’uomo intelligente e consapevole della propria debolezza e inferiorità. Il fragile fiore è contrapposto perciò allo stupido orgoglio degli uomini che si illudono di essere i padroni dell’universo. La ginestra un giorno soccomberà inevitabilmente come del resto ogni altro essere vivente alla forza della natura ma almeno lo farà senza la viltà o senza l’orgoglio di chi pretende di essere immortale, in questo perciò la ginestra è infinitamente più saggia dell’uomo perché non ha la presunzione di volersi sottrarre al naturale corso degli  eventi.
La poesia appartenendo al periodo della poetica eroica di Leopardi è caratterizzata da uno stile più aspro meno equilibrato e non più ispirato dall’ideale poetico della vago e dell’indefinito ma piuttosto finalizzato a rendere il più energicamente possibile le fastidiose e dure verità sulla vita che il poeta vuole comunicare.

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